Dopo la raccolta si portavano al frantoio (‘u muntan’) e si attendeva il turno per la macinatura. Nel frantoio c’erano due grosse mole di pietra rotonde, legate ad un palo di legno, posto in orizzontale a cui veniva legato il cavallo bendato. Il cavallo, girando in tondo, azionava le due mole che frantumavano le olive fino a farle diventare una pasta nera, morbida e scivolosa. La pasta, raccolta in una vasca, circolare veniva messa nei “fiscoli“, dischi di corda che una volta riempiti, venivano sovrapposti sotto un torchio. Finita la pasta il torchio veniva abbassato per la premitura e dai fiscoli usciva l’olio. “L’olio d’oliva“ attraversato un incavo di pietra viva, si raccoglieva in una vasca sotterranea piena per 3/4 di acqua e ricoperta da una tavola di legno. Il torchio veniva fatto girare da un lungo e grosso bastone di legno dai “montanari” e l’operazione durava circa un’ora. Terminata la spremitura, il “montanaro” toglieva la tavola di legno e scendeva al livello della vasca per raccogliere l’olio con la “leccaressa” una specie di coperchio concavo. L’olio veniva misurato in coppe e la decima coppa spettava al padrone del frantoio e costituiva l’unica forma di pagamento. Quando l’olio cominciava a diventare torbido si chiamava “vullore” : si raccoglieva in un recipiente a parte, era misto ad acqua ma col passar del tempo “acchiariva” . I residui delle olive premute, la sansa, venivano vendute ad un altro frantoio che vi ricavava l’olio di sansa. L’olio extravergine d’oliva, invece, era quello che si raccoglieva nei solchi della pasta macinata ma non lavorata: se ne raccoglieva poco e pertanto veniva usato quasi come una medicina.